Anche se ora in arancione, il Lazio a marzo è tornato solo per un periodo in zona rossa, eppure sono tanti quelli che, nell’anno trascorso, non sono mai usciti dalla “zona rossa”.
Qualcuno l’ha subita come conseguenza delle chiusure, altri l’hanno vissuta in quanto relegati in luoghi chiusi, come le persone che sono in carcere e i numerosissimi anziani e disabili nelle strutture socio sanitarie o assistenziali. Queste persone fragili hanno subito, proprio nei luoghi che dovevano proteggerli, le conseguenze del virus in modo devastante e tantissime persone sono morte. I sopravvissuti hanno perso compagni, hanno visto diradare il contatto affettivo con i propri cari ed i propri amici e, non di rado, negli spostamenti all’interno dell’istituto, o durante i ricoveri in strutture covid dedicate, hanno perso abbigliamento e altri oggetti personali. Anche negli stessi luoghi dove sono ospitati, spesso sono rimasti chiusi nelle proprie stanze in isolamento per lunghi periodi, privati anche di momenti di socializzazione interni… I racconti dei diretti interessati potrebbero aggiungere molto a questa lista di privazioni e di disagi.
Dopo un anno, certamente sono state promosse alcune iniziative tese a migliorare il contatto degli ospiti con i loro cari (stanze degli abbracci, videochiamate…), si è mitigata la separazione all’interno, ma, nonostante in diverse strutture si sia anche conclusa la somministrazione del vaccino alle persone non colpite dal Covid-19 – in quanto gli altri per un periodo hanno già l’immunità connessa agli anticorpi sviluppati durante la malattia – la maggior parte delle strutture rimane sostanzialmente chiusa.
Gli anziani chiusi nelle RSA sono ormai costretti a una deprivazione relazionale e affettiva che ne peggiora fortemente la qualità della vita, di fatto accorciandola.
Del resto se da parte del ministero della salute e di altre istituzioni, come la Regione Lazio, si è chiesto agli istituti con decisione, sulla base di motivazioni sanitarie, di intraprendere la strada di una maggiore attenzione ai problemi relazionali degli anziani ed alla loro socializzazione, molto poco si è fatto in questa direzione, come se l’estrema difficoltà per le persone ricoverate di avere rapporti con familiari ed amici fosse un problema secondario.
Si potrebbe dire che c’è troppo silenzio sulla condizione di quanti sono istituzionalizzati, mentre le stesse strutture vivono come in una condizione di separazione ed isolamento. Isolamento quasi fotografato dalla frase che troppo spesso si è sentita ripetere in passato: “Non si preoccupi pensiamo a tutto noi!”, frase che oggi, di fronte a quanto accaduto in questi luoghi durante la pandemia, suona veramente drammatica. Quella “preoccupazione” non è stata sufficiente a proteggere e l’epidemia è entrata prepotente, nonostante le chiusure.
Dobbiamo apprendere la lezione che questo anno difficile ci comunica: la soluzione è nel superare ogni isolamento, quello dei ricoverati e quello delle strutture: occorre che quel “pensiamo a tutto noi” si apra a comprendere un “noi” più grande, a partire dagli stessi interessati, gli anziani, e coinvolga poi, parenti e persone che gli anziani hanno vicino, le associazioni, i comuni, le forze politiche e sindacali, i servizi territoriali, i medici di famiglia, le parrocchie (considerando quanto grave sia stata la mancanza di un servizio religioso) … Occorre cioè che il tessuto sociale si faccia carico in modo attivo di questa situazione. Anche i recenti problemi connessi alla mancata vaccinazione di residenti e personale in strutture di accoglienza, mostrano come sia importante che il tema degli anziani fragili non sia affidato esclusivamente a strutture esecutive come le ASL, le quali certamente hanno svolto con grande impegno un ruolo difficile ed impegnativo durante la pandemia.
Fa riflettere come di recente, in un comune della zona dei Castelli, per affrontare in modo più consono il problema della refezione scolastica, sia stato convocato un tavolo comprendente l’ente pubblico, la scuola, la ditta e i genitori, mentre, nelle RSA, nonostante i cittadini a vario titolo concorrano al pagamento di una retta complessiva di 3.600 euro al mese a persona (di cui 1.800 euro al mese a carico dei pazienti/familiari e/o comuni e 1.800 euro conferiti alle strutture direttamente dalla Asl), praticamente nessuno di quanti sono direttamente coinvolti abbia voce in capitolo sulle scelte delle strutture, a cominciare dal vitto e dal trattamento cosiddetto “alberghiero”.
Per questo ci sembra opportuno aprire finestre di dibattito pubblico circa le scelte relative alla “cura” delle persone fragili, iniziando in questo momento da come sia possibile alleggerire il loro isolamento.
Vogliamo con questa iniziativa cominciare a dare corpo a quanto detto dal presidente del Consiglio Mario Draghi a Bergamo il 18 marzo: “Siamo qui per promettere ai nostri anziani che non accadrà più che le persone fragili non vengano adeguatamente assistite e protette.”