Quello che sappiamo è che Vincenza è mancata ieri nel carcere femminile di Rebibbia, dove era detenuta, a quanto pare a seguito di un attacco di cuore. Non c’è dubbio che con la sua morte la comunità di Pomezia abbia perso qualcosa, ma che cosa esattamente?
Molti in queste ore dicono che Vincenza era un simbolo, ed è certamente vero: era forse il simbolo vivente dei limiti del nostro sistema socio-assistenziale. È morta in carcere, lontano dalla città in cui ha vissuto la sua breve vita. Il suo trascorso era noto, i diversi generi di violenza subita fin dalla tenera età anche, le sue attuali problematiche erano sotto gli occhi di tutti. Ma Vincenza era anche il desiderio nascosto e poche volte confessato di provare a raddrizzare la sua vita, trovare una parvenza di serenità, essere lasciata in pace.
Non poteva riuscirci da sola, e negli ultimi anni qualcuno con cui si era aperta più del solito ha provato a fare qualcosa per aiutarla a raggiungere questo flebile desiderio (sapete che Vincenza in carcere partecipava al laboratorio teatrale?). Tuttavia, la morte dietro le sbarre rappresenta con crudezza quello che come società riserviamo alle vite “marginali”. L’emarginazione, appunto, la messa ai margini di un mondo che scorre a un ritmo diverso, che non ha tempo da perdere.
Non c’è in questo articolo la volontà di condannare qualcuno, di puntare il dito e di trovare responsabilità. Ma se l’addio a Vincenza deve lasciare un segno, che sia almeno quello della riflessione.
Ognuno di noi conserva il suo ricordo di Vincenzina e chi l’ha guardata con più attenzione sa anche tracciarne qualche dettaglio. Chi scrive ricorda l’imbarazzo che le ha letto in volto quella volta che si era messa una maglia «da femmina» e si sentiva brutta, ma soprattutto quella capacità di osservare le persone e istintivamente capire chi si trovava di fronte. Per qualcuno si preoccupava anche, seguendo un suo personalissimo metro di giudizio, e a modo suo diceva le cose come stavano, come le sapeva dire. Alla comunità di Pomezia oggi resta soltanto la possibilità di scegliere come salutarla, magari tributandole la stessa onestà che lei spesso ha bruscamente rivolto a noi.