Entrare ad Al Karama è un’esperienza surreale: varcato l’ingresso ci si ritrova in una sorta di set cinematografico balcanico, con strade polverose, bambini che giocano scalzi insieme ai cani sotto lo sguardo di gruppi di adulti seduti all’ombra. Ci vuole un po’ per mettere meglio a fuoco il quadro, e accorgersi che in nessun film si è mai visto qualcosa di così fatiscente: costruzioni in muratura diroccate si alternano a container rivestiti di amianto e roulotte malandate, a ricoprire un pezzo di terreno fangoso pieno di fogne scoperte da cui escono ratti delle più svariate dimensioni. Qui, da oltre una quindicina d’anni, vivono circa 150 persone, molte delle quali bambini: l’ultima arrivata ha una settimana appena, e dorme beata e incurante della confusione tra le braccia di sua madre, che la mostra orgogliosa. “Hei amico, sei venuto a fotografare degrado?” chiede suo marito, un ragazzo con un lampo furbo nello sguardo e la sigaretta penzoloni tra le labbra, evidentemente abituato alla vista di giornalisti in vena di scoop. Veramente no, diciamo noi: spieghiamo invece che vogliamo sapere cosa ne pensano dell’Accordo firmato nei giorni scorsi e subito altre persone ancora si avvicinano per capire meglio. Nata negli anni ’90 come centro d’accoglienza per i braccianti maghrebini impegnati nelle campagne, l’area – di proprietà della regione – è stata convertita nel 2002 a campo rom, sull’onda di quello che all’epoca era un indirizzo legislativo sostenuto dalla Comunità Europea. Un radicale cambio d’indirizzo nel 2011, quando No ai campi rom diventa la nuova parola d’ordine a livello europeo, lascia però l’area in una situazione di stasi che impedisce l’erogazione di servizi essenziali come l’iscrizione scolastica e sanitaria agli ospiti del campo: la convenzione tra regione e comune scade nel 2011 e non viene più rinnovata, scatenando una lotta di rimpalli di responsabilità ad ogni caso di cronaca. Di fatto, tra il 2011 e il 2016, servizi come lo scuolabus e l’assistenza sanitaria vengono interrotti e solo in tempi recenti, con l’attivazione del Pronto Intervento Sociale e la gestione dell’emergenza Covid, i Servizi Sociali sono riusciti attraverso l’erogazione dei servizi a fare un censimento dei presenti. Lo scorso 22 luglio si è siglato un nuovo protocollo tra prefettura, regione e comune che dovrebbe risolvere le criticità più immediate e avviare lavori di ristrutturazione e bonifica dell’area: di questo siamo venuti a parlare, e loro a quel punto si aprono con una disponibilità nuova alle domande. Due le novità più apprezzate dagli ospiti del centro: la prevista ricollocazione in nuove unità abitative nell’appezzamento di terreno adiacente (utilizzato al momento come discarica clandestina da molti residenti della zona) ma, soprattutto, la possibilità di ottenere la residenza e riuscire a sbloccare situazioni di regolarizzazione lavorativa e assistenza sanitaria che li condannano a vivere in un eterno limbo. Il certificato di residenza, indispensabile per l’ottenimento di qualsiasi Isee, regolarizzazione e normalizzazione di vita precaria, è l’invisibile chiave di volta su cui si reggono le nostre vite, e per loro non è diverso. Ed è in un certo senso destabilizzante osservare come, prima ancora di una casa decente, senza topi né amianto e con servizi igienici dignitosi, la dignità di queste persone debba passare per l’ottenimento di un pezzo di carta, condizione indispensabile ad una vita considerata normale.
Carlo Miccio
31/07/2020