Davanti al IV collegio penale del Tribunale di Roma è entrato nel vivo il processo denominato “Brasile low cost”, relativo alle circa sette tonnellate di cocaina che i Casamonica avevano progettato di far entrare in Italia dalla Colombia, attraverso l’aeroporto di Ciampino. Un’operazione ricchissima bloccata lo scorso anno dalla Direzione distrettuale antimafia capitolina grazie alle indagini della Guardia di finanza, della Dea statunitense, della Polizia svizzera e, in particolare, grazie al lavoro di agenti sotto copertura, a una serie di intercettazioni e alle testimonianze dei pentiti. Un processo a carico di Salvatore Casamonica, esponente dell’omonimo clan di origine nomade che ha messo radici tra la capitale e i Castelli Romani, di Silvano Mandolesi, di Marino, suo braccio destro, ritenuto dagli inquirenti un broker vicino ai clan napoletani e calabresi, e di Tomislav Petkovic, un serbo montenegrino temuto anche da un uomo del calibro di Massimo Carminati, che in una conversazione intercettata lo ha definito “uno brutto forte”. A parlare in aula, rispondendo alle domande del pm Giovanni Musarò, è stato il maggiore Stilian Cortese del gruppo investigativo delle Fiamme gialle a contrasto della criminalità organizzata, che ha illustrato i rapporti con la Dea e con gli omologhi svizzeri, evidenziando il ruolo fondamentale degli agenti sotto copertura per disvelare quella che doveva essere una delle più grandi importazioni di coca sul territorio italiano, prima presso lo scalo di Ciampino appunto e poi in Svizzera. Una testimonianza continuamente interrotta dalle eccezioni delle difese, rappresentate dagli avvocati Naso, Staniscia, Porcelli, Cardillo Cupo e Fagiolo, che hanno portato il collegio giudicante a pronunciarsi più volte sia sull’ammissibilità delle prove che sulla possibilità dell’ufficiale di riferire quanto appreso dagli agenti sotto copertura, i cui nomi sono rimasti segreti e sostituiti dagli pseudonimi “il francese”, “il pilota” e “lo svizzero”, a tutela della loro sicurezza. Salvatore Casamonica sarebbe stato il referente del traffico di droga. Entrato in contatto con i narcos colombiani, l’esponente del clan di origine nomade li avrebbe convinti a trattare un quantitativo di cocaina tale “da assorbire l’intera produzione di un cartello”, come ha spiegato a fine gennaio dello scorso anno, al momento degli arresti, il procuratore Michele Prestipino.
07/07/2020