Il cinema non si ferma. È il titolo del primo progetto cinematografico post Covid. Anzi, ne è figlio visto che ideazione, scrittura e set hanno tutti avuto luogo – e i lavori sono ancora in corso (ci sono almeno altre due settimane di riprese) – durante questa quarantena. Jane Alexander, Karin Proia e Paola Lavini, Kaspar Capparoni, Ignazio Oliva, Nicolas Vaporidis e Remo Girone, sono tanti gli attori, anche di nome, che hanno accolto l’invito del produttore Ruggero De Virgiliis e del regista Marco Serafini a sposare questo film a episodi (sette) che porta avanti un nuovo Dogma. Non frutto di libera scelta, come quello di Von Trier, Vinterberg e soci, il Dogma 95, ma causato dalla cattività dovuta al Coronavirus.
E così seguendo tutti i dettami del DPCM, dall’impossibilità di uscire di casa all’evitare assembramenti, si è riuscito comunque a costruire un progetto da grande schermo. Vi ho raccontato questa storia speciale perché fin dal suo titolo dimostra come non ci sia mondo più tenace, ostinato e resiliente di quello dell’arte, lo abbiamo visto dai teatranti che hanno recitato su Youtube alle pièce trasferite in streaming a orari precisi, come fossero prime dal vivo. Attori, registi, sceneggiatori non hanno mollato, hanno cercato di rendere il nostro tempo, improvvisamente imprigionato, bello e colorato. E non è in fondo quello che fanno sempre? Portare la bellezza, la creatività in esistenze che spesso le cercano, disperatamente, per superare le frustrazioni professionali, il grigiore di alcune giornate più difficili oppure semplicemente per soddisfare la nostra sete di poesia, talento, sogni. Non si sono risparmiati anche se il Paese, invece, si sta dimenticando di loro.
Di solito qui vi racconto Roma, il suo essere splendida, solidale ma anche mal amministrata e poco rispettata dai suoi cittadini. Vi mostro luoghi speciali in cui i romani recuperano qualcosa di fondamentale (dal Parco delle Valli al Teatro della dodicesima), così come non chiudo gli occhi di fronte ai suoi enormi problemi. Ecco perché vi parlo di arte, perché la nostra Capitale, come già segnalammo, ne è piena. Tra le prima città in Italia per numero di teatri (Napoli è in cima a questa classifica, con 32 strutture e il San Carlo definito da National Geographic il più bello del mondo), storicamente insieme a Hollywood una capitale del cinema, con la sua Cinecittà, Roma è il centro di questa ferita aperta causata da uno Stato che sta pensando a tutti, ma non a chi contribuisce a rendere il mondo e quindi anche questa città migliore, più bella, più ricca (in tutti i sensi), più gioiosa e profonda, tra risate e riflessioni, tra intrattenimento e sperimentazione.
Anche durante la peste le corti si preoccupavano di proteggere gli artisti, in questo 2020 invece mentre questi ultimi continuano a pensare a noi (da Michela Andreozzi e Max Vado che riscoprono on line Rodari, ai tanti spettacoli (ri)proposti in streaming, passando per le letture dello splendido romanzo Emanuele nella battaglia di Daniele Vicari fino alle singole iniziative di registi e attori per non lasciare il proprio pubblico solo), noi come società li trascuriamo. Distribuzioni cinematografiche che rischiano di chiudere – guarda caso le più indipendenti che si preoccupano di mostrarci opere che in Italia difficilmente arriverebbero altrimenti -, teatri che potrebbero non riaprire, compagnie che si sciolgono e professionisti costretti a lasciare il proprio lavoro d’eccellenza, sono tante le storie terribili e quotidiane che ci stanno togliendo pezzi di bellezza e avanguardia culturale. Per tacere di quanto sarà difficile nel prossimo futuro girare un film nelle strade e nei teatri di posa capitolini – ma anche altrove – per le regole sacrosante che dovremo osservare ma anche perché a oggi non ci sono aiuti a produzioni, distribuzioni, festival e artisti. E quelle poche briciole che arriveranno grazie ad ammortizzatori sociali ridicoli e lautamente pagati soprattutto dalle categorie meno conosciute e più penalizzate, serviranno a poco. Già, perché siete, siamo abituati a immaginarceli come privilegiati, ma sono un popolo di precari. Non un’élite, come molti credono: parliamo di 200.000 famiglie coinvolte, di un pezzo di PIL (soprattutto del Lazio) che restituisce dal doppio fino a 20 volte tanto quel poco che il pubblico le concede, a partire dalle tasse.
Come ha scritto Daniele Vicari, regista, solo per citare gli ultimi lavori, dei bellissimi Diaz, Prima che la notte e Sole cuore amore, “Il governo ha stanziato un po’ di soldi per i lavoratori in difficoltà, e ha stabilito un tetto di 600 euro (quasi 200 sotto il reddito di cittadinanza), quindi anche i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo dovrebbero percepirlo. Ora dovete sapere che gran parte di loro non potrà avere accesso all’indennità perché è solitamente costretta a lavorare in nero o con “scritture private” e mille altre formule “precarie” causate dalla metodologia dei massimi ribassi con cui si realizzano festival, manifestazioni e a volte anche spettacoli (e infatti molti di loro sono tra i 700.000 respinti dall’Inps). Non sono poi poche le imprese dello spettacolo (teatri ma anche produzioni cinematografiche) che non applicano in maniera corretta i contratti nazionali nonostante la gran parte di esse producano opere con soldi pubblici”. E state certi che alla fine i “padroni” qualche soldo avranno mentre i loro sottoposti neanche questa mancia “ridicola”, inferiore a quella che ritira chi il lavoro magari neanche se lo cerca. Prendiamoci cura di chi ci fa star meglio, restituiamo loro un po’ della bellezza che ci hanno regalato. Come cittadini, se la politica non lo farà, abboniamoci a scatola chiusa ai teatri, compriamo biglietti del cinema, diventiamo produttori di questi artisti se necessario. E facciamolo anche quando e se l’emergenza sarà finita: perché la CGIL, nel 2017, fece uno studio sui lavoratori dello spettacolo scoprendo che il loro reddito pro capite era di 5.430 euro, un quarto del reddito medio nazionale. Neanche 15 euro al giorno. Se suonassi davanti alla metropolitana, io che sono stonato come una campana, guadagnerei di più. Ed è una vergogna. Per noi che lo permettiamo, non per loro che continuano a essere resilienti e resistenti. E lo fanno per noi. Da sempre.