«La ribellione non si misura a metri. Anche quando pare di poche spanne, un viaggio può restare senza ritorno». Questa citazione di Italo Calvino è stata il fil rouge del concorso letterario organizzato dall’associazione Caffè Culturale di Aprilia. 10 brani finalisti sono stati letti e commentati durante la serata del 21 giugno scorso. Una giuria, composta dalla giornalista Laura Alteri, lo scrittore Marco Roncaccia e lo scrittore e curatore della casa editrice Atlantide Editore Dario Petti, ha decretato il vincitore: Veruska Vertuani con il delicato racconto “L’anatomia del riso”, il desiderio di rivincita di un giovane napoletano alle prese con i risotti più che con l’impasto per la pizza. Il pubblico in sala ha invece scelto il secondo vincitore, Maria Teresa Caraglia con “La bandiera di Giovanni”, con un racconto che parla del dolore e dei rischi che si corrono pur di difendere la propria identità. Una serata ricca di emozioni, risate e leggerezza, durante la quale i 10 aspiranti scrittori hanno voluto donare un piccolo pezzo della loro creatività al pubblico presente, leggendo ad alta voce il frutto del loro sapiente lavoro. Il Caffè Culturale di Aprilia ricorda che da settembre ripartiranno i corsi di scrittura creativa tenuti proprio dal maestro Marco Roncaccia. Info: 0693376502.
I RACCONTI VINCITORI:
L’ANATOMIA DEL RISO DI VERUSKA VERTUANI
‹‹Devo riuscire a farli sorridere››.
Gennaro si era fatto una reputazione nella ristorazione milanese, suscitando curiosità sin dal nome. Figlio di pizzaioli da generazioni, a Napoli aveva frequentato la scuola alberghiera, dedicandosi però più alla preparazione dei risotti che sul tempo di lievitazione dei panetti di pasta o su come mantecare la ricotta.
In passato il mal di pancia di Gennaro era stato l’unico motivo valido per non mettere a tavola un piatto di pasta ben condita o la classica margherita. Ogni volta che l’indisposizione si ripeteva, la preparazione del riso si trasformava in un gioco, con Gennaro che sottraeva alla cottura qualche chicco di riso, per trasformarlo in forme improvvisate, come un cuore o un sorriso, e la curiosità rimaneva oltre il gusto lasciato in bocca. Se i compagni di classe in cucina aprivano scatole di pelati e stendevano i panetti per la pizza, Gennaro riduceva sedano e carote a cubetti per profumare i risotti. Questa sua inclinazione aveva portato una ventata di novità a scuola e non c’era insegnante che non lo spronasse ad ampliare le conoscenze in materia, benché questo significasse ribellarsi un po’ alla tradizione gastronomica.
L’ultimo anno di scuola bisognava riportare su un modulo il nome del ristorante dove svolgere lo stage oggetto della maturità e Gennaro, senza esitazioni, scarabocchiò il foglio: “Un ristorante che mi insegni a fare i risotti!”. Ci sarebbe voluto un miracolo per trovare, a Napoli, una cucina che fosse disposta a sprecare la forza lavoro di un ragazzo nella preparazione di risotti, ma Gennaro aveva talento e così, superato il rifiuto dei ristoratori napoletani, gli insegnanti non se l’erano sentita di disilludere quella richiesta così decisa e riuscirono a concordare lo stage a Milano, presso un locale giovane e di tendenza.
Il ragazzo era incredulo, si aggirava per la cucina entusiasta e curioso, alcune forme di pentole non le aveva proprio mai viste, figurarsi quelle in rame, sarebbero sparite in men che non si dica dal laboratorio della scuola. Lo staff del ristorante gli si affezionò presto e una mattina Alessandro, proprietario del locale nonché chef, lo portò al mercato rionale. Alla scoperta del vero riso, quello che sparge profumo dai sacchi di juta. Non era mai successo che lo chef desse confidenza ai collaboratori dopo così poco tempo.
Gennaro trascorse la sua ultima sera a Milano preparando riso thai al melograno e zafferano, sotto lo sguardo attento di Alessandro, che si lasciò disarmare da un misto di tenerezza e stupore nel vedere un ragazzo appena maggiorenne muoversi in modo attento e deciso.
I piatti che tornavano in cucina erano vuoti, non c’era migliore complimento che Gennaro potesse ricevere e quando a chiusura del locale rimasero soli, Alessandro si tolse il grembiule portafortuna e lo poggiò sulla spalla di Gennaro, intento a pulire il piano di lavoro. Gennaro si voltò e lo abbracciò, commosso.
‹‹Gennaro, spiega alla commissione l’argomento della tua tesina››.
‹‹L’anatomia del riso è il risultato di una passione che coltivo da sempre, elaborata con ricordi di infanzia: ad ogni varietà di riso ho abbinato una ricetta di mia creazione. Nell’ultimo capitolo della tesina ho inserito foto scattate durante lo stage››. Risotti semplici o elaborati che fossero, parlavano del gran talento di Gennaro.
Fu cento.
Gennaro scrisse cento, null’altro, sulla chat di whatsapp che aveva attivato con Alessandro; pochi minuti e l’icona della conversazione si illuminò: “Ti voglio a Milano, sbrigati!”
Luglio ed agosto trascorsero velocissimi al ristorante, Gennaro si accorse della chiusura estiva solo quando ebbe il biglietto del treno in mano. Ovvio che era contento di tornare a Napoli per riabbracciare la madre e per starsene su uno scoglio a respirare salsedine: l’idroscalo non avrebbe mai potuto essere paragonabile al mare! Quanto al resto… aveva interessi e obiettivi troppo diversi dagli ex compagni di scuola, motivo per cui, in quella settimana di permanenza non li cercò, né venne cercato. Partì senza rimpianti, consapevole che sarebbe tornato a Napoli sempre più raramente.
‹‹Strano, ancora non è arrivato››. Gennaro iniziava ad agitarsi, Alessandro era sempre puntualissimo, anche se, con massima fiducia, aveva delegato Gennaro all’apertura serale del ristorante. Era così assorto che non si rese conto dell’arrivo dei carabinieri.
‹‹Moto – incidente – pioggia – mi dispiace››. Gli ingredienti per il dolore erano serviti.
‹‹Devo riuscire a farli sorridere››.
Gennaro, sostenuto dallo staff, si era rimboccato le maniche per far sì che l’eredità lasciata da Alessandro non andasse perduta. Un anno dopo la pioggia era tornata, proprio quella sera, forse anche per quello c’era la sensazione di una tristezza diffusa. Fece capolino dalla cucina, era impossibile ignorare i visi dei clienti assorti sullo smartphone, così Gennaro fermò i risotti pronti a uscire e porzione per porzione ne sgranò i chicchi in sorrisi che occupavano tutto il piatto di portata; aspettò, asciugandosi le mani sul grembiule di Alessandro, un gesto che ripeteva in modo automatico quando doveva scaricare la tensione.
Guardò dall’oblò della porta della cucina, gli sguardi si staccavano dai cellulari, i clienti ridevano.
L’anatomia del riso funzionava ancora.
LA BANDIERA DI GIOVANNI DI MARIA TERESA CARAGLIA
Gentile Signora Lidia,
ho visto il suo indirizzo mentre suo figlio Giovanni le scriveva il mese scorso. L’ho tenuto a mente perché chiederlo alla segreteria del carcere sarebbe stata una complicazione. Mi chiamo Guido Serra, occupo la stanza di fronte a quella di Giovanni.
Il vento incessante ed ostinato non ci abbandona da una settimana, le nubi corrono facendosi sempre più grandi e fanno arrabbiare le onde tanto che nessuno riesce ancora ad avvicinarsi a San Nicola. Questa isola delle Tremiti è bellissima solo d’estate, a novembre è dimenticata da tutti e lo siamo anche noi da cinque anni a questa parte.
Le giunga ancora un mio sincero abbraccio, la morte del suo Giovanni è arrivata inaspettata, almeno per noi suoi compagni. Mi addolora pensarla sola a piangere a mille chilometri di distanza e non poter venire qui a San Nicola per via del maltempo. Le esequie, come già saprà, si sono svolte ieri mattina molto presto, un breve saluto sul piazzale prima del monastero e poi dritti alla falesia del cimitero.
La vita è un viaggio senza ritorno, questo piccolo cimitero sulla punta più lontana e stretta dell’isola è l’illusione che tutto torna alla sua giusta libertà, anche la ribellione silente ed una colpa inesistente.
Abbiamo sepolto Giovanni mentre anche il cielo piangeva su questa sorte inspiegabile e ingiusta come molte di questi tempi. Giovanni amava i libri, amava leggere, amava la musica e amava tutti quelli che vivevano di essa e per essa. Quando era a Roma frequentava artisti di ogni genere, viveva con ognuno di loro.
Quando arrivarono le camicie nere, resero senza colore la vita di Roma; divenne sempre più difficile scappare e non farsi notare in certi ambienti. Giovanni non volle accettare di lasciare l’appartamento che divideva con me per trasferirsi da mia cugina Maria. Ha cercato di rendersi meno attraente con una barba incolta ed un paio di scarpe consumate ma ormai gli squadristi avevano già controllato tutti i nostri locali segreti e le nostre amicizie. La vita di Giovanni era già senza ritorno, la sua ribellione non era voluta; la sua insofferenza divenne silenziosa resistenza.
La sua natura di uomo era diversa dalla realtà di uomo che veniva divulgata ma mai il suo atteggiamento omosessuale è stato ostentato come stendardo di ostilità. Giovanni non si è mai spostato dal suo essere, non è mai sceso a compromessi per convenienza. Giovanni ha scelto di essere strumento di ribellione e non martire da ricordare, ha scelto di essere prigioniero per passione.
A lei, sua madre, voleva tacere per evitarle dispiaceri e problemi; non poteva immaginare che per una colpa (se così è corretto definirla) anche lei ne avrebbe pagato le conseguenze, come se suo figlio si fosse macchiato del sangue del più feroce omicidio.
E come avrebbe potuto commetterlo su quest’isola deserta? Una prigione con la parvenza di residenza d’esilio. Esilio da tutto e da tutti, dagli affetti e dalla civiltà perché su quest’isola comanda il tempo, il vento ed il mare. Siamo separati da pochi metri di mare ma alte sono le onde di diffidenza e crudeltà alzate su di noi che siamo qui in attesa di giudizio.
Io sono ancora qui, adesso, per scelta. Sono ancora qui per spiegare ai nuovi che arrivano il significato del quadro dai mille toni di rosso che Giovanni aveva fatto e regalato al bar dei condannati.
Un quadro così grande da sembrare una parete di sangue, fatto di piccoli noccioli di prugne selvatiche poi seccati e dipinti di rosso. Giovanni diceva che quelle erano le lacrime che aveva dovuto ingoiare.
Resterò qui ed aspetterò ancora Natale per dipingere d’argento le lunghe foglie delle agavi della larga scalinata e alla base delle palazzine: toglierò e serberò le punte acuminate nella speranza che non ci siano più ferite nelle nostre anime, così come Giovanni mi ha insegnato.
Aspetterò trepidante il caldo sole di luglio, potremo spogliarci un po’(solo la canottiera è consentita) e illudere la pelle con i baci del sole. Salirò verso il Monastero e poi ancora verso la punta estrema per sentire il vento graffiarmi il viso e le braccia con il sale come dopo un arruffato amplesso con Giovanni.
Le chiedo scusa Lidia, se il ricordo del suo Giovanni si trasforma con le mie parole sul nostro amore …sua e mia condanna.
Non scenderò più da quest’isola, Lidia. Resterò perché sul crinale sarò la sventolante bandiera di ribellione che Giovanni aveva iniziato a preparare.
Resterò a S. Nicola, prigioniero di un ideale e non di una stanza umida. Resterò qui e aspetterò con fiducia l’autunno e le foglie che cadranno. Riprenderò, come Giovanni, a scrivere la mia rabbia su quelle piccole foglie. Ogni tanto regalava una foglia a visitatori o inservienti. Le ultime che aveva scritto le invierò con questa lettera.
In pace senza arrabbiarsi, felice senza potermi più stare accanto, indomito nell’apparente obbedienza e ribelle senza muovere un dito…Giovanni era così.
Lo ricordi Lidia, come un figlio coraggioso e onesto con la vita. Lo ricordi nelle sue preghiere come un Gesù trafitto ma sceso dalla croce per portarla ancora avanti per noi, senza chiedere aiuto.
Io ed il gatto Nino siamo qui, improvvisi capperi fioriti tra le pietre più scoscese. Oltre ai capperi, il sale coprirà anche la piccola fotografia sulla lapide di Giovanni, dolci saranno le lacrime di chi non sarà
più nascosto come noi e il volto di Giovanni tornerà bello come sempre.
Guido