Stop al nuovo Ambito idrico numero 6, deciso a febbraio scorso dalla Regione Lazio e nel quale si voleva far confluire i Comuni dei Castelli Romani. Nel nuovo organismo Ato6 verrebbero trasferiti gli utenti di 48 Comuni in provincia di Roma e 9 in provincia di Frosinone. In particolare, si prevede che vi rientrino anche Albano, Ariccia, Genzano, Lanuvio, Lariano, Marino, Velletri, Rocca di Papa, Nemi e Rocca Priora. I 5 Ato attuali restano confermati tali e quali “così come definiti con Legge regionale 6/1996” e confermato è anche “il relativo assetto gestionale” secondo quanto approvato a suo tempo dalle apposite Convenzioni di gestione, “fino alla loro naturale scadenza”.
Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, con la sua squadra di governo ha congelato l’operazione di revisione dei bacini decisa con tre delibere di Giunta poco prima delle ultime elezioni dello scorso 4 marzo e che appunto istituisce l’Ambito numero 6. Una manovra che ha procurato parecchi mal di pancia tra Sindaci e amministratori locali ma pure tra gli attivisti del movimento per l’acqua pubblica, che avevano aspramente criticato la scelta. Peggioramento del servizio, anche sul fronte della qualità dell’acqua fornita, aumento delle bollette e scarsa democrazia nel non avere coinvolto ed ascoltato a dovere i Comuni e i cittadini, senza di pari passo alcun miglioramento di sorta. Queste in sostanza le critiche. Una valanga di no che ha prodotto anche un ricorso al Tar votato all’unanimità dai rappresentanti di 46 Comuni soci dell’Ambito idrico gestito da Acea Ato2, nel corso della Conferenza dei Sindaci del 23 aprile scorso. La nuova Giunta Zingaretti ha deliberato di sospendere l’efficacia delle tre delibere la numero 56 e la 129 e la 152 del 2 marzo con cui lo stesso presidente e i precedenti assessori regionali hanno istituito l’Ato 6 del Lazio. La sospensione è stata approvata all’unanimità con la delibera n. 218 dell’8 maggio. Con la stessa delibera, la Giunta demanda per sei mesi al Direttore regionale delle risorse idriche e difesa suolo, l’ing. Mauro Lasagna, “ogni attività utile a pervenire ad un nuovo modello di governante del Servizio idrico integrato, anche previa modificazione delle attuali norme che lo sovraintendono, anche previo qualificati contributi da reperire all’esterno della struttura regionale in materia di sistema di regolazione, tutela dell’ambiente e del consumatore, modello industriale, comparazione interregionale e valorizzazione della partecipazione dei territori e degli interessi sociali diffusi”. Sulla carta, aspetti e princìpi che ricordano la legge regionale n. 5 del 2014, votata dall’allora Consiglio regionale su impulso e con contenuti generosamente espressi dai movimenti civici per l’acqua pubblica. Una legge nuova e innovativa, che sembrava candidata a diventare un modello nuovo e sano per le altre Regioni d’Italia, ma poi lasciata quasi cadere nell’oblìo, specialmente nella parte che puntava alla vera e concreta tutela dell’acqua bene comune e dei cittadini. La prevista possibile chiamata di “contributi” esterni potrebbe significare un più forte coinvolgimento e partecipazione dal basso, a cominciare dagli attivisti che ad esempio hanno portato agli storici – benché inapplicati e traditi – referendum per l’acqua pubblica del giugno 2011. Ma potrebbe anche sottendere altro. Ad esempio, potrebbe produrre l’ennesimo reclutamento e affidamento di questioni così centrali a consulenti esterni, non solo strapagati, ma magari più vicini a certe lobby che all’interesse della collettività. È quanto accaduto finora e non solo in campo idrico. Per ipotesi, verrebbe allora da chiedersi: la Regione, massimo ente territoriale competente sulle risorse idriche a oltre 20 anni dalle leggi nazionale e regionale che disciplinano il settore, ancora non ha tecnici in grado di valutare, ideare, progettare e implementare certi aggiornamenti in materia di acqua?