“Non ho avuto mai così paura come in questo momento”. Parole piene di amarezza, ma non di rassegnazione, che sintetizzano la situazione di pericolo e di costante apprensione che sono costretti a vivere quotidianamente i medici che svolgono nella provincia di Latina il servizio di continuità assistenziale o – più prosaicamente – di guardia medica. Elena (nome di fantasia) è diventata medico per vocazione: “Nonostante tutto non mi sono mai tirata indietro, per amore del mio lavoro”, ci confessa seduta nel suo ufficio all’interno dell’ambulatorio, pronta a trascorrere un’altra nottata – l’ennesima – da sola nel presidio medico di Aprilia, dove è spesso di turno, spostata da una struttura all’altra della provincia nell’arco della settimana. Si occupa di continuità assistenziale da dieci anni. Ne ha viste tante, e per questo non si stupisce troppo del caso di Catania che ha acceso la luce su un aspetto sommerso, noto fino ad oggi sostanzialmente solo agli addetti ai lavori. Le criticità nella gestione del servizio ad Aprilia sono peggiorate nell’ultimo periodo e risiedono tutte in un filtro che dovrebbe garantire una fondamentale misura di sicurezza, ma che in realtà non esiste. Si tratta del centro d’ascolto, struttura che riceve le telefonate dei pazienti che richiedono il servizio, procede con il riconoscimento, e dovrebbe valutare se ci sono gli estremi per una visita, in ambulatorio o a domicilio. In attesa dell’accorpamento dei centri d’ascolto in un unico sportello provinciale, Aprilia – insieme a Cisterna – è stata trasferita sotto il controllo della centrale di Roma. “Un’operazione che ha messo in crisi un sistema già confuso e scollegato”, ci spiega Elena. Ma il quadro è omogeneo a livello provinciale, e i problemi di Aprilia sono gli stessi degli altri presidi sparsi sul territorio pontino: “Mi sento di parlare a nome di tutti miei colleghi della provincia di Latina”. Soprattutto a nome del personale donna, il cui rischio è sensibilmente maggiore per ovvie ragioni. In balia di un sistema in cortocircuito: ”L’80% delle utenze si reca direttamente presso l’ambulatorio senza contattare prima il centro d’ascolto”. Una percentuale tutt’altro che inverosimile: nelle tre ore in cui siamo stati in compagnia di Elena, dei tre pazienti che hanno suonao il campanello del centro, nessuno aveva concordato preliminarmente una visita. Ed ecco che la guardie mediche si trovano a dover valutare in pochi secondi – separati solamente da un’esile porta anti-panico – il caso clinico di un perfetto sconosciuto. E raramente riescono a dire di no ad una richiesta, con tutti i rischi che ciò comporta. Spesso i medici della struttura filtro del centro d’ascolto (privi di specifici corsi di formazione e sottoposti ad un continuo turn over) non riescono a valutare le priorità d’intervento e nel presidio può succedere che si accavallino dei casi, con conseguenti malumori e tensioni tra i pazienti, scaricati tutti sul personale in servizio in ambulatorio. Potenzialmente molto più pericolose sono le visite a domicilio: i medici non sono tracciati in alcun modo – “Della serie: sanno quando partiamo, ma non sanno se torniamo” – e non è prevista, tra l’altro, la presenza di una figura di vigilanza nelle visite presso le abitazioni di pazienti con problemi psichici o agli arresti domiciliari. Insomma, un salto nel buio. In tutto questo, l’auspicio è che l’accorpamento dei centri di ascolto (che doveva essere definitivo a dicembre 2016) venga portato a termine, in vista di un maggior coordinamento di quelle procedure attualmente piene di falle. Perché le guardie mediche si occupano quotidianamente della salute di una mole enorme di pazienti, ma della sicurezza (e quindi della salute) delle guardie mediche chi se ne occupa?
Alessandro Martufi
27/09/2017