La Corte d’Appello ha condannato il Ministero della Salute “per non aver aver vigilato sugli errori commessi dal nosocomio durante le trasfusioni di sangue poi risultato infetto”.
È stata riconosciuta l’omissione di controllo da parte di ospedale e Ministero sulla filiera delle donazioni-trasfusioni. Di fatto, nonostante le conoscenze scientifiche del tempo (era già noto, dal dopoguerra, alla comunità scientifica internazionale il rischio di contagio da sangue per uso terapeutico) e nonostante le leggi esistenti, a partire dal metà degli anni ’60, imponessero precisi controlli sui donatori, nessuno si sarebbe mai preso la briga di effettuarli, con la conseguenza che si è verificata una massiccia veicolazione di virus patogeni come l’HIV e aids, l’epatite B e, come nel caso dell’uomo di Sabaudia, l’epatite C.
Il 54enne aveva contratto l’epatite C e solo dopo 20 anni dall’emotrasfusione aveva scoperto di essere stato contagiato, a seguito delle consuete analisi del sangue da cui erano emersi i valori elevati degli enzimi delle transaminasi come campanello di allarme di una sofferenza epatica.
La causa, iniziata in primo grado nel 2007, si è conclusa in secondo grado con la sentenza n. 599/2017 che ha condannato lo Stato a pagare all’uomo di Sabaudia 92mila euro, ma anche la rivalutazione monetaria e gli interessi calcolati anno per anno dal 1978-1979 che hanno fatto lievitare ad oggi la somma a circa 980mila euro.
Una battaglia passata attraverso 2 gradi di giudizio e 2 tentativi di transazioni proposte dallo Stato, poi mai concluse. Il 54enne di Sabaudia, assistito dall’avvocato Renato Mattarelli, era riuscito ad ottenere l’indennizzo previsto dalla legge 210/1992 in favore dei soggetti danneggiati da trasfusioni infette.