È conosciuto da tutti come l’eroe degli indiani Sikh. Cosa l’ha spinta a prendere a cuore la loro categoria?
«In primis, non sono un eroe. Questo è un aspetto fondamentale. Sono un sociologo originario della provincia di Latina che sulla comunità indiana pontina ha condotto la sua ricerca di dottorato. Sono entrato in un “mondo” complesso in cui a volte sfruttato e sfruttatore si confondono, in cui la stessa consapevolezza delle persone di essere sfruttate viene meno o è poco considerata. Basti pensare che almeno fino a tre anni fa il termine e concetto di caporale non era presente nel vocabolario e cultura indiana. Mi impegno su questo tema insieme alla coop. In Migrazione di cui sono presidente perché considero sbagliato un sistema di produzione e di potere fondato sulla prevaricazione, sull’illegalità, sullo sfruttamento. Per questa ragione ho deciso di unire alla mia attività di ricercatore quella del giornalista di inchiesta e propriamente lavorativa della cooperativa. Lo scopo è combattere lo sfruttamento e il caporalato per rendere la provincia di Latina e il modello agricolo e poi sociale di riferimento migliore, ossia pienamente legale, includente e civile per tutti, italiani inclusi».
La provincia pontina conta una popolazione di circa 30mila indiani sikh impiegati nell’agricoltura. Eppure, prima dell’interesse suo e del sindacato Flai Cgil sembravano invisibili. Perché?
«Perché vivevano ai margini sociali, da intendere non solo come abitanti degli spazi rurali ma anche ai margini della nostra riflessione, attenzione e rete sociale di riferimento. Erano sfruttati ed esclusi dai processi di partecipazione sociale e civile del paese. Questo generava un corto circuito che li esponeva ancora più alle mire di sfruttatori, trafficanti e caporali, che tengo a sottolineare, sono sia italiani che indiani che appartenenti ad altre nazionalità. Non esiste un discorso etnico o nazionalistico in questo caso. Esistono sistemi di potere e di interessi costituitisi che producono sfruttamento e illegalità. La loro marginalità ed emarginazione era ed è una delle ragioni del loro sfruttamento».
Nel luglio 2015 è terminato il corso di italiano che, per loro, significava molto più che alcune lezioni di grammatica. È stato bruscamente interrotto e dalla Regione non sono più arrivati fondi. È così poco importante permettere ai 30mila indiani di integrarsi?
«Quel progetto, denominato Bella Farnia, è diventato best practice per il CNR, riconosciuto di livello internazionale per come era stato progettato, organizzato e per la metodologia applicata tanto da aver attirato l’attenzione della stampa tedesca e danese, oltre a quella nazionale. Abbiamo costruito un legame profondo e intenso con molti lavoratori e lavoratrici, sino a portare alle prime denunce contro caporali e datori di lavoro, peraltro di aziende di rilevanti dimensioni e di livello internazionale. Per questo progetto la relazione con la Regione Lazio è stata fondamentale e va ripresa quanto prima. E’ chiaro che non basta un progetto di sei mesi per affrontare il tema e dare un contributo forte al suo superamento. Servono progetti professionali e di lungo periodo. Non è rilevante che li faccia In Migrazione, esistono diverse realtà qualificate. L’importante è che vengano adeguatamente finanziati, realizzati con professionalità elevate e abbiano un respiro lungo. Il rischio altrimenti è di deludere le aspettative di chi ha avuto il coraggio di denunciare e di fidarsi di noi».
C’è un giro di droga taciuto dietro lo sfruttamento degli indiani nei campi?
«Esiste il problema dell’utilizzo di sostanze stupefacenti e soprattutto bulbi di papavero dietro lo sfruttamento lavorativo che vede un’alleanza perversa tra alcuni indiani e alcuni italiani. Questo tema è stato denunciato con il dossier di In Migrazione “Doparsi per lavorare come schiavi”. Le storie raccontate sono drammatiche e continuiamo a raccoglierne durante i nostri incontri e assemblee coi lavoratori. Le azioni delle forze dell’ordine sono state fondamentali. Ci sono stati importanti arresti. Ma è necessario costruire una serena e collaborativa alleanza tra le istituzioni, le realtà associative più impegnate sul tema, i sindacati e le categorie datoriali per sconfiggere una piaga che rischia di trasformassi presto in una nuova forma di criminalità organizzata con implicazioni gravi sul piano del lavoro, dei diritti e più in generale della legalità».
Lei insegna agli indiani a non abbassare la testa di fronte a chi li comanda. Ma la settimana scorsa è stato lei a trovare le gomme dell’auto bucate. E non è la prima volta che riceve minacce.
«È vero e continuiamo a non abbassare la testa. Quell’episodio è stato subito denunciato in Questura. Non è la prima volta che capita. In passato ci sono stati episodi analoghi, compresa una “macchina del fango” che mirava a denigrare la mia persona e i sindacati. Ogni episodio è stato denunciato, ogni minaccia diretta o via social è stata denunciata anch’essa e continueremo a farlo. Devo a questo riguardo ringraziare quanti hanno manifestato solidarietà e vicinanza alla mia persona. È stata la dimostrazione che stiamo lavorando nella direzione giusta e che il muro di indifferenza che circondava questo tema fino a qualche anno fa è gravemente lesionato. Per abbatterlo completamente è ora necessario accelerare nel contrasto sociale e poi giudiziario allo sfruttamento lavorativo e ad ogni crimine ad esso commesso».