LAZIO SREGOLATO
Difatti, il Lazio è ancora sprovvisto di una legge a tutela del consumo sconsiderato di suolo che imponga, prima di accendere i motori delle ruspe, di valutare e eventualmente recuperare l’esistente.
Si tratta di case, palazzi, a volte intere porzioni di quartieri che potrebbero essere risistemati prima di fare nuovi edifici. Ma anche capannoni ad uso artigianale e commerciale dismessi, basti pensare a zone come Cancelliera, tra Ariccia ed Albano, e all’ex eldorado della Cassa per il Mezzogiorno nel polo industriale tra Pomezia, Aprilia e Latina. “Feticci” che restano abbandonati, non utilizzati, a volte addirittura a rischio crollo. Fantasmi di cemento armato, in centro come in periferia. Così il riuso dell’esistente si trasforma in una bandiera da sventolare solo in campagna elettorale: ristrutturazione o abbattimento e ricostruzione. Ma risistemare e dare nuova vita a strutture che ci sono già o buttarle giù per sostituire con altre nuove, oltre ad evitare la sparizione di preziosi terreni, darebbe una mano al settore dell’edilizia che potrebbe comunque avere parecchio lavoro, senza per forza dover scavare e stravolgere il suolo con nuove costruzioni.
RECORD LAZIALE
Mentre sempre più spesso, a causa della crisi del mattone, le lobby del cemento ingrassano coi soldi pubblici (leggi box di approfondimento). Eppure, secondo gli accademici dell’INU, il Lazio è la terza regione d’Italia per consumo del suolo, con una percentuale di cementificazione di territorio pari al 10,3%: un totale di 1.720 chilometri quadrati. Preceduta solo dal Veneto (12,9%) e dalla Lombardia (12,8). Male Roma e provincia, dove è stato cementificato e asfaltato qualcosa come il 10,6% del terreno disponibile. Latina e Provincia, invece, si attestano su una media dell’8,1%. In sintesi, il consumo del suolo nel Lazio è più che quadruplicato negli ultimi 50 anni. E l’avanzata di cemento sembra non trovare ostacoli visto che all’orizzonte non si intravede l’ombra di amministratori e politici vogliosi e capaci di invertire per davvero questa brutta tendenza. Prima che di uno straccio di legge sul consumo sconsiderato di suolo.
Il verde pubblico finisce sotto coltri di cemento non solo per mano dei privati ma, secondo l’INU, l’Istituto Nazionale di Urbanistica, spesso anche con il sostegno delle Amministrazioni regionali e locali. E, soprattutto, con l’aiutino extra dei soldi pubblici. È il caso del progetto PLUS, piano locale di sviluppo urbano, co-finanziato coi fondi della Regione Lazio e dell’Unione Europea. Un programma con indubbie finalità positive, che qualcuno però adopera per fare business cementizio anziché migliorare e riqualificare quel che c’è. Magari si sistemano un po’ le strutture precedenti e – con la scusa del recupero – ci si costruiscono vicino immobili nuovi di sana pianta, magari nemmeno ad uso pubblico.
Toscana, Piemonte e Lombardia hanno già varato leggi a difesa del suolo. Umbria e Piemonte hanno puntato sugli incentivi pubblici a sostegno di chi riqualifica aree già urbanizzate. Emilia Romagna, Liguria e Friuli, stanno valutando.
Nel Lazio non c’è ancora una legge che imponga di valutare l’esistente prima di dare il via libera ai piani di urbanizzazione residenziali, artigianali, commerciali o industriali. Nella nostra regione abbiamo solo un Piano Casa con premi di cubatura possibilità cioè di ingrandire gli immobili a chi riqualifica quelli esistenti. Cosa ben diversa da una organica e compiuta normativa che regoli le costruzioni tutelando il territorio.
Entro primavera, il Senato voterà la versione definitiva di una legge destinata, secondo il Governo, ad arrestare il consumo irrazionale di suolo. Priorità al riuso dell’esistente: ristrutturazione e rinnovo urbanistico di palazzi e case non utilizzate, abbandonate o pericolanti, ma anche demolizione e ricostruzione. E poi, istituzione di un censimento nazionale, una sorta di catasto degli edifici sfitti e/o abbandonati, per individuare le priorità di recupero. Alla preparazione della nuova legge sta partecipando anche la Conferenza unificata Stato-Regioni, di cui fanno parte i rappresentanti delle singoli Regioni.